giovedì 14 aprile 2011

Aspetti random della settimana del Mobile.


Tra le diecimila cose belle:
1 . La mostra per i 90 anni di Venini. Meravigliosi vetri soffiati dai colori strappati alla laguna o semplicemente all’immaginazione, esposte fino al 23 in una delle case museo più affascinanti di Milano: il palazzo Bagatti Valsecchi, residenza di fine Ottocento dai legni cupi e istoriati, dai camini giganteschi, le cassapanche quattrocentesche e gli arredi in stile rinascimentale, i motti dipinti sulle pareti, le armature e la scalinata interna degna di un film di Visconti. Se avevamo qualche perplessità sull’accostare vetri super moderni a un ambiente così antico, è scomparsa nel constatare come le cose belle si accompagnino bene alle cose belle: basta dare un’occhiata al letto a baldacchino del signor Bagatti Valsecchi, solenne con i suoi teschioni da memento mori e le sue sete polverose,  illuminato da una boccia di vetro tipo astronave multicolore, piovuta lì come da un'altra galassia per rischiarare un mondo passato rendendolo più vivo che mai.
2. Lo showroom Driade in Via Manzoni: difficile restare padroni di sé davanti a tanto fulgore. Le poltrone-viso, gli affreschi settecenteschi, i vasi, i lampadari foglia e i lampadari bolla, la natura dell’acqua e delle piante cristallizzata in acciaio, vetro e luce …
3. Il rumore ovattato dei passi quando entri in un padiglione della Fiera.
4. Il vento che ieri spettinava le vasche di acqua sottile in Fiera. Il monte Rosa nella distanza.
5. La misteriosa montagna di sale davanti a Palazzo Reale su cui nuotano cavalli errabondi.  
6. Il bimbetto senza una scarpa che si rotolava felice sul pavimento del museo del design alla Triennale.
7. L’eco che si sente nei musei, in tutti i musei. Che non rende più grande il vuoto, ma amplifica la presenza degli oggetti.

Brutture assortite:
Troppa gente in poco spazio. Sporcizia e degrado proprio nelle zone principali dei fuori salone (via Tortona, via Savona eccetera). Marciapiedi ridicoli e trolley troppo grossi. Persone che parlano forte al cellulare. Signore abbronzatissime biondissime e molto targate che spintonano e ti pestano i piedi per entrare per prime al cocktail di Baccarat. Gente che si ingolfa di tartine. L’Atm che sembra, spesso, cospirare contro l’umanità. Certi venti glaciali destatisi improvvisamente e non ancora andati via. Pedoni che fanno capannello nei punti più stretti dei marciapiedi. Automobilisti che passano col rosso in piazza San Babila dovendo poi fermarsi sopra le strisce con le loro macchine dinosauriche dai vetri fumé, mentre i pedoni fanno lo slalom per salvarsi le chiappe senza che un vigile sia sfiorato dall’intervenire. Gazebo con i santini ritoccati della sindaca più incapace della storia e di altri personaggi poco raccomandabili e molto sorridenti. Uomini di grossa taglia che ti si siedono vicini in metropolitana occupando metà del tuo spazio. Donne di piccola taglia sedute accanto a te, che sgomitano nella borsetta rischiando di assestarti un cazzotto. Tutti quelli che leggono il giornale in metro.  

giovedì 17 marzo 2011

17 Marzo 2011

Oggi su Facebook c’era ogni sorta di post sull’Unità d’Italia. O meglio: perdonate la pignoleria, il Regno d’Italia. L’unità si raggiunge con la Prima Guerra Mondiale, non certo nel 1861. Ecco perché tanti (tri)veneti, già incazzati per via della seconda alluvione in pochi mesi, non sentivano molto l’evenienza. E non solo loro.

Non sono patriota, non sono stata cresciuta nel concetto di patria che, più di libertà e ricerca della felicità, mi fa venire in mente filo spinato, trincee e annessioni non volute. Inoltre c’è ben poco di cui festeggiare, con la crisi che non se ne va, il lavoro che manca, la scuola che va a rotoli, la vita civile che si disfa nell’arroganza e nella maleducazione, ampiamente ispirata da una vita politica impresentabile da entrambi gli schieramenti. Essere orgogliosi? E di che?

Qualcuno ha detto che non c’è niente di cui essere orgogliosi perché essere italiani (così come, aggiungo, essere tedeschi, giapponesi o lituani) non è un merito di per sé. Vero.
Potrei dire che sono fiera del nostro passato culturale, ma questo vorrebbe dire che mi identifico in una bandiera, seppure ideale. Ma allora questa bandiera potrebbe includere tranquillamente i non italiani, perché la cultura non ha patria.

Potrei addirittura identificarmi (e lo faccio) con “caratteristiche nazionali” decisamente non italiane, ideali quali la precisione, l’affidabilità, il rispetto dei contratti, la trasparenza, la gentilezza, la capacità di stare in coda senza cercare di superare perfino in farmacia, il rispetto delle strisce pedonali, per dire qualcuna di quelle cose che qui contano davvero poco.

Potrei dire che l’italiano medio mi fa schifo: è razzista e arrogante, si compiace della propria furberia di basso rango, dell’idea che fregare il prossimo sia una virtù, del fatto che non sappia mai pronunciare adeguatamente le altre lingue (“tanto l’importante è farsi capire”). Accetta che i politici rubino perché tanto lo fa anche lui, ritiene la laurea un pezzo di carta da culo, getta i mozziconi per terra e anche addosso alla gente, ti stira sulle strisce e vuole avere ragione. E’ qualunquista e scazzato perché non s’interessa di niente e guarda con sospetto ogni entusiasmo come robetta da idealisti o sfigati. E’ uno che affossa la creatività e che davanti al talento fa di tutto per ostacolarlo.

Ma io non conosco solo quell’italiano medio, anzi quell’italietto odioso e ignorante di tutte le età e di ogni sesso, di ogni provenienza sociale e geografica, che meriterebbe soltanto una scarpata nel sedere e una manata sul coppino accompagnata dalla confisca immediata della libertà di parola, circolazione e pensiero.

Io conosco un sacco di gente PER BENE. Uh che espressione antiquata! Borghese! Ridicola!
Me ne frego e la adopero ugualmente.

Non c’è mica bisogno di essere dei santi, per essere per bene.
Essere per bene, per me, include una buona dose di “common sense”, di quella capacità di vedere le situazioni per quello che sono e di agire con buon senso, onestamente, nell’interesse proprio ma anche possibilmente altrui (nel lavoro specialmente: chi in un’azienda non funziona, la fa pagare anche agli altri. E i capi in questo sono i peggiori di tutti). Include una sorta di gentilezza informale, un’apertura tollerante e ironica. Include la capacità di muoversi nel mondo con rispetto. Di avere attenzione per l’interlocutore. Di coltivare la capacità di mettersi in dubbio. Di non arrendersi alla bruttezza che ci circonda e di trovare la bellezza in cose impensate e salvifiche, a portata di occhio. Di ammettere le proprie responsabilità. Di mettere in salvo un paio di principi sani e intoccabili e non pensare esclusivamente che l’unico scopo della vita sia lavorare, abbuffarsi, trombare, dormire e alzarsi di nuovo a rifare le stesse fottute cose.  Niente di troppo eroico, insomma, ma altamente desiderabile.  

Se esiste qualcosa come l’Italia, dev’essere fatta da quelle persone lì. E siccome mi è capitato di nascere qui, se devo pensare a qualcuno, penso a loro. Più che un festeggiamento, un augurio.

domenica 27 febbraio 2011

De Profundis. Promemoria.


Ogni volta che pronunciate le seguenti parole, fate attenzione a voi stessi.
Watch yourselves.

Amicizia. Non sono una buona amica: lo dico subito, così nessuno ha da recriminare. Come disse un saggio tempo fa, io mi espongo sempre - "falsamente"(cit). Certo: così nessuno può darmi addosso. Soltanto io.

Amicizia: la caratteristica n.1 di tale connubio è l'indispensabile, spontanea Reciprocità. Se non c'è quella, non c'è niente. Se avete un amico/a che non vi chiede come state, che non si informa di come va la vostra vita o se lo fa unicamente per poter parlare della propria, che non si diverte a creare complicità su cose comuni, date retta a me: non è un amico/a, ma un compagno/a di avventura. Attraverserà la vostra strada per un po', potreste anche divertirvi, imparare molto, stare bene insieme, ma l'amico/a è ben altro. Se, per esempio, costui/ei si ostina a parlarvi dei cazzi suoi senza mai, ma dico, mai, chiedere dei vostri, non è un amico/a. E' uno che ha bisogno di un comodo vomitatoio. Niente di male, di per sè: basta saperlo, e non usare vocaboli a sproposito.

Amicizia. C'è molta gente che crede che a un amico si possa dire tutto. Niente di più sbagliato. All'amico si può dire quasi tutto, e con le dovute cautele. Se vuoi bene a un amico, gli risparmi tante cose. Se vuoi bene solo a te stesso, non gli rispiarmi niente.

Amicizia. Ci sono persone che credono che la sincerità sia un valore di per sé. Se ciò fosse vero, potremmo accostarci a un cieco e urlargli nelle orecchie: "Sei orbo, perdio! Lo vedi come sei orbo?"

Se ciò fosse vero, potremmo avvicinarci a qualcuno vestito in un modo che non ci piace e dirgli: "Fai positivamente schifo. Cambiati". Solo perché non piace a noi.

Se ciò fosse vero, non avremmo un tale smodato bisogno di esibire la nostra sincerità a ogni piè sospinto, farne una bandiera di virtù adamantina contro ogni frivola corruzione, quando, in realtà, non stiamo nascondendoci che dietro nostri personali rancori, invidie e ruggini varie da esprimere nel modo più brutale, offensivo e inutile, specialmente con i cosiddetti "amici": coloro a cui si può dire tutto, perché sono coloro che ascoltano sempre. I coglionazzi.

No, io credo invece nell'ipotesi Gibran: cerca il tuo amico quando la vita ti sorride, condividi il meglio di te con lui. E chi ha conosciuto le tue tempeste, conosca anche il tuo sereno. Stop.

Amore. Una parola da usare il meno possibile, ma che, quando la si adopera, può spostare le montagne. Usatela di tanto in tanto e solo se ci credete. E' una bella parola, delicata. Non va sciupata. Detto questo: non è amore il farsi compagnia solo perché la solitudine fa una paura fottuta. Non è amore litigare per poi fare la pace: quella è passione, ego grosso-grosso, e va benissimo, ma non è amore. Non è amore stare attaccati a qualcuno come delle cozze allo scoglio, soffocare l'amato con recriminazioni e attenzioni non richieste e non dovute. L'amore vero è un peso piuma: il peso del cuore che batte e niente più.

Amore. Rivestimento idilliaco per un istinto vecchio come il mondo. E fin qui tutto ok, basta avere le idee chiare. Se mi sposo per fare un piacere a mio padre/madre, mi sto prostituendo a una convenzione. Se NON mi sposo per dispiacere a mia madre/padre, mi sto prostituendo alla mia ribellione. L'amore non ne gioverà.

L'amore, per quanto io lo conosca davvero poco, è lieve, tenero, semplice e profondo. Può travestirsi in modo terrificante, avere mille volti, e non tutti carini e simpatici, ma una volta che c'è - lo ripeto: è lieve, tenero, semplice, profondo. E c'è sempre. Poche parole o mille parole, è lo stesso. Non giudica a fil di spada. E' inafferrabile come il Gatto del Cheshire alias Stregatto, ma è lì. Senza spiegazioni di troppo.

L'amore è come il sangue umano per i vampiri moderni: ne puoi anche fare a meno, vivi ugualmente e magari ti mantieni più lucido ed efficiente, però non vivi te stesso fino in fondo. Quindi, a dispetto di ogni saggio cinismo, meglio averne che no.

In sintesi: watch yourselves. Nosce te ipsum. Conosci te stesso. Stop

lunedì 21 febbraio 2011

Dittatori e Persone Qualunque



Tutti i dittatori, anche quelli che non si ritengono tali e quelli che non sono ritenuti tali da tutti, hanno le seguenti caratteristiche.

Una personalità carismatica, il che non significa che siano migliori o più coraggiosi di altri.
Significa semplicemente che sanno manovrare meglio le folle per perseguire il proprio interesse.
Significa che spesso sono simpatici e comunicano positività, fiducia nel futuro, anche se non c'è alcun motivo statistico per essere garruli o baldanzosi. Hanno colto l'essenziale verità secondo la quale l'essere umano medio è più affascinato da un sorriso che da un muso lungo, proprio come un lattante che ha bisogno di specchiarsi nel benevolo volto della mamma e non in quello arcigno di una signorina Rottelmeyer. Una cosa che sa qualunque PR, ma nel loro caso la posta in gioco è un tantino più vertiginosa.

Dittatori, lo scopo qual è? Diventare re del mondo, i dominatori dell'universo, come nei cartoni animati?
Risposta: sì.
I cartoni animati hanno una profonda saggezza.
Il Potere per il Potere. Orwell lo sapeva bene. E anche Tolkien, quell'inglese che scriveva storie di nani coi piedi pelosi.

I dittatori, a qualunque livello (pinches tiranos, tirannelli, marketing manager, tiranni, dittatori, orchi e Pol Pot) non delegano nulla e considerano il dissenso un atto di lesa maestà (se si tratta dell'opposizione) o di tradimento (se si tratta di membri della stessa fazione, partito o altra associazione). Fondamentalmente non sanno lavorare con gli altri. E a volte non sanno nemmeno comandare. Una cosa la sanno fare bene, però: paura.

I dittatori usano armi molto semplici che non sempre sfociano nella violenza diretta.
Il denaro è  la prima, perchè tutti sono corruttibili, in qualche modo.

Insinuare il dubbio di essere insostituibili, che non esista qualcuno in grado di fare quello che fanno loro, è la seconda, e peggiore arma in loro possesso. Perché la gente si abitua a pensare che senza di loro non sia possibile andare avanti.

Gli ideali sono la terza arma.
I dittatori si appoggiano spesso ai valori tradizionali della famiglia e della religione.
Favoriscono spesso le chiese ufficiali. Predicano l'amore per la vita e infatti mettono al mondo un numero ragguardevole di figli da un altrettanto ragguardevole numero di consorti. Sono capaci di atti di grande generosità con il singolo in difficoltà, poiché questo li mette in pace con la loro idea di coscienza pulita, ma sono del tutto impermeabili al pensiero di un "bene comune", su ampia scala.

La quarta arma è la mistificazione della realtà attraverso la ripetizione ossessiva di slogan di grande presa. Qualcosa di analogo all'infame pubblicità di una marca di abbigliamento giovane che suonava: "Be stupid".

La quinta arma è la mistificazione di se stessi: il vero dittatore ci crede, alle bugie che dice. Per questo suona così convincente.

I dittatori hanno sempre, sempre paura della stampa, dell'informazione e della critica. E non c'è nulla quanto un dittatore che rifiuti di venire a patti con il Quarto potere, che faccia scatenare i peggiori mastini dell'informazione. E la pioggia si abbatte inevitabilmente sui giusti e sugli ingiusti, perché non tutta la stampa è buona e non tutta la buona stampa sa essere efficace quando è il caso di esserlo. E spesso assistiamo all'orrendo spettacolo di cani rabbiosi che si contendono a morsi un polistirolo bisunto del Mac Donald's, mentre la ciccia è ben altrove e di quella nessuno ha il coraggio di occuparsi. 

I dittatori esistono perché la maggior parte della gente è pigra. Non cattiva, non possediamo una tale statura morale: solo pigra. La logica del branco elimina il dissidente singolo come un povero sfigato, ma accetta la deposizione del tiranno qualora ciò avvenga di comune accordo. Molti animali ci riescono brillantemente, gli esseri umani molto meno, specie se ciò non risponde all'immediata gratificazione di un bisogno primario quale il cibo o la mera sopravvivenza.

I dittatori amano spesso circondarsi di belle donne e magnifiche case, cosa peraltro comune a moltissimi membri della razza umana senza che ciò rappresenti di per sé un difetto. Ma nei dittatori, in tutto il mondo, questo aspetto assume proporzioni inusuali, grottesche,sospette, contraddittorie con la presunta "moralità" che essi stessi predicano agli altri, forti dell'appoggio, o del silenzio, della maggior parte delle gerarchie ecclesiastiche.

I dittatori non leggono, se non quello che li confermi nella loro idea di potere.
Si circondano di persone inferiori a loro per possibilità o intelligenza, creando un nutrito schieramento di valvassini pronti a tutto. Non amano chi è meglio di loro, perché non vogliono imparare nulla. E a volte, nascondendosi dietro uno smodato amore per certe architetture o certi autori, combattono la cultura, perché la cultura è anche critica, e la critica li fa tremare.

I dittatori sono persone estremamente sensibili che amano gli animali e i bambini.

I dittatori sono bruttini, e dormono poco.

I dittatori ci saranno sempre, finché noi persone qualunque continueremo a essere 1) servi addormentati o, semplicemente, 2) persone qualunque.

sabato 19 febbraio 2011

Chiamami ancora quella cosa che fa rima con cuore

L'avevo sentita una sola volta, sgranocchiando un wafer. Non mi era piaciuta, la canzone di Roberto Vecchioni Chiamami ancora amore. Fin dal titolo: e basta con questo amore, perdiana, sembra un libro di Moccia. Da uno come lui ci si deve aspettare di più. Quando, dieci minuti fa, Gianni Morandi ha annunciato la sua vittoria al Festival di Sanremo, ho avuto un moto di stizza. No, ma come? Perché?
Poi mi sono imposta di risentirla con attenzione. Le pecche: la melodia è un'autocitazione continua Roberto Vecchioni-Vecchioni Roberto. E qualcosa (l'afflato, l'intenzione, la musica, non ho ancora capito) mi ha ricordato Sogna ragazzo sogna, di tanti anni fa ma sempre bella. Musicalmente nessuna novità, almeno alle orecchie di un profano quale io mi ritengo. Parole... eh, sì, una bella scucchiaiata di retorica c'è. Il problema è che funziona. Funziona perché coglie qualcosa di molto sentito nell'Italia di questo momento. Fu vera gloria? O ha fatto il furbo anche lui? Guardando i suoi occhi brillanti di gioia, a me è sembrato che Roberto ci credesse. E questo redime da molta retorica. Senza contare che, oltre alla parola "amore", c'è anche la parola "libro". Non male. Ci sono cascata? Può darsi, ma ripeto, funziona.

Passiamo alle cose serie: sono l'unica a pensare che Belén e Canalis sembrassero due colonnoni rosa cui i rispettivi abiti non facevano per niente giustizia? Su Dior e Armani è arduo discutere, specie se imbustate dentro quelle stoffe ci sono tali ineffabili bellezze, però dissento ugualmente dalla scelta sartoriale. E cos'era quello svolazzo in testa a Elisabetta? E la bomboniera su una spalla sola? E Belén? dorme tra due tiranti, che a ogni puntata era sempre più alta? Baaaa, andate a fare le taxi driver (in italiano, per chi non lo sapesse, "taxi driver"), che è meglio.

venerdì 18 febbraio 2011

Inno per le esequie di un ideale

Non mi piace l’Inno di Mameli, non mi è mai piaciuto. E’ una questione di gusti. Non mi piace il ritmo da marcetta, non mi piacciono frasi come  “schiava di Roma Iddio la creò”, non amo il riferimento a elmi e condottieri, la prontezza auspicata, retorica per noi ma molto concreta per chi lo scrisse, a dare la vita per la cosiddetta patria. Il testo è ritmico ma raffazzonato, e lascia un involontario retrogusto fascista. Chi ha proposto di sostituirlo con il Va’ pensiero dal Nabucco di Verdi ha colto l’esigenza fondamentale di un inno nazionale è cioè quella di creare una melodia bella e solenne, che unisca  chi la ascolta in un sentimento comune, un afflato poetico che ci rende uguali, almeno nel momento della cantata.
Ieri Roberto Benigni, dopo aver fatto irruzione sul palco dell’Ariston su un magnifico cavallo bianco, redini in una mano, Tricolore nell’altra, ha cercato di evocarlo, questo sentimento comune, raccontandoci come è nato l’inno, chi fosse il suo autore, in quali tragiche ed eroiche circostanze morì. Un intervento importante, specie in un’Italia “minorenne” che non ha il coraggio di guardarsi in faccia, un’Italia minorata in cui l’intelligenza politica sembra identificarsi nella disponibilità a farsi corrompere, a tutti i livelli. L’Italia dove se non freghi nessuno sei un patetico scemo, l’Italia dei furbetti da quattro soldi che però di soldi ne fanno moltissimi. L’Italia che piega ogni legge e principio a favore del potente di turno, l’Italia dei doppi e tripli incarichi, dei finti invalidi e dei giovani senza lavoro tacciati di essere bamboccioni, a fronte di tanti mangiapane a ufo rimasti in carica per trent’anni, tuttora golosamente seduti in Parlamento (De Mita vi dice qualcosa? Mastella?) e tutt’altro che ansiosi di mollare le loro comode, e disertate, poltrone. Quindi sì: ridare dignità all’Inno di Mameli facendolo conoscere a tutti è un atto di fede, di autentica gentilezza verso un Paese stanco di ignoranza e stupidità.
Quando Benigni si è messo a cantare, in un sussurro, i versi di Mameli, perfino la maestrina dalla penna rossa ha avvertito un brivido. Perché Benigni stava cantando al funerale di un’Italia che forse non è mai esistita: le esequie di un ideale.
Pars destruens. Non posso pagare qualcuno, per quanto geniale, mezzo milione di euro per farmi commuovere. Inoltre, nel suo entusiasmo, Roberto ha dovuto sorvolare sugli eccidi e le mostruosità compiute su tante popolazioni della Penisola in nome di un’unità che non tutti hanno desiderato. Onore a Mazzini, onore a  Garibaldi, gente che ci ha messo la faccia e il cuore, così diversi dalle facce da culo che ci tocca vedere ogni giorno in tv. Ma l’Italia nasce divisa, una babele di lingue e misure, tutti orgogliosamente “diversi” (Il birraio di Preston di Andrea Camilleri illustra molto bene la questione, esponendo il lettore al rischio di sbudellarsi dal ridere attraverso i dialoghi surreali di piemontesi, siciliani, toscani e veneti che all’indomani dell’unità hanno serissimi problemi di comunicazione). E’ Storia: ci sono cicatrici che stentano a rimarginarsi. Al Sud, e anche al Nord. Va bene un discorso che cerchi di fare appello a una coscienza nazionale: ma non ricordare che, per tanta gente, essere annessi contro la propria volontà non è stato esattamente a piece of cake, evoca una retorica che non riesco ad apprezzare fino in fondo.  Terza pecca: la lunghezza dell’intervento. “Less is more”, perfino in tv.
Immagino che dopo l’impegno di ieri, questa sera torneremo all’allegra cazzonaggine italica di sempre.  Tranquilli: è tempo di paillettes.

giovedì 17 febbraio 2011

Satira ai satiri


E anche la seconda è andata. Portandosi via alcune mummie il cui sorprendente stato di conservazione si sta avvicinando a quello che Stephen King definirebbe "creepy": inquietante e pauroso, un dito di ghiaccio alla schiena per intenderci. Al Bano, per esempio: quando si lancia in una sventagliata di gorgheggio c'è sempre da temere che esploda, come l'uccellino  con la principessa di Shrek. E nutro anche una forte contrarietà sull'uso del nome "Amanda", tanto vocalico sì, ma visto certe questioni perugine non ancora risolte in sede giudiziaria, avrei scelto un altro nome, evitando di evocare la bionda di Seattle, ben poco libera per il momento. Patty Pravo sembra un meganoide e un po' paura mi fa. Invece ho apprezzato Natalie (si scrive così?), anche se mi riservo di ascoltare la sua canzone senza video, perché è l'unico modo di vedere la musica senza dover subire anche il cantante. La conduzione: le due fenicottere si baciano e dicono stupidaggini, non sanno presentare e pazienza, con l'aggravante dei capelli dello stesso colore. Belén si mangia la Canalis a colazione. Morandi ha strane idee sulla Repubblica Italiana.
  Ma veniamo a Paolo e Luca, egregi il giorno prima duettando in veste di Fini e Berlusca. Come alcuni hanno detto, è ben triste la satira imposta per par condicio. Anche perché la satira deve colpire duro, usare vie di mezzo la snatura. Prendere in giro Saviano? Bah, può anche andare: l'uomo, nonostante i molti meriti, si presta (col berretto della laurea in testa somigliava decisamente all'ayatollah Komeini). E nessuno dev'essere esente a priori da una democratica presa in giro. Ma la satira non si può imporre, dev'essere una cosa spontanea, e la cosa più spontanea in assoluto è la presa in giro del potere inarrivabile, non di chi quel potere lo mette in discussione, rischiando in proprio (come fa Saviano, appunto). Perde di senso, è forzata. E' difficile, invece, non ironizzare su Berlusconi: il ragazzo è un intrattenitore nato, anche quando non vuole. Basta vedere come se la ghignano due giornalisti australiani in collegamento da Roma:


Attendiamo, un po' scoglionati, la prossima puntata, sperando che Luca e Paolo non si facciano spiaccicare dal sistemaccio Rai. Perché la satira poco convinta non fa ridere nessuno. E qualla imposta dall'alto è... sovietica.